Abbiamo già affrontato il tema, spinoso, della cessione dei crediti in blocco o c.d. “cartolarizzazione” e della legittimazione del cessionario (ovvero del soggetto che acquista il credito) ad agire e/o a costituirsi in giudizio.
Nel precedente scritto ci eravamo soffermati in particolare sugli orientamenti giurisprudenziali in tema di corretta dimostrazione, da parte del cessionario, di essere l’effettivo titolare del credito per il quale agisce o a difesa del quale si costituisce in giudizio e sull’orientamento non univoco, sul punto, della giurisprudenza di merito e di legittimità.
Le difficoltà della società cessionaria, tuttavia, non si esauriscono soltanto nel dover fornire la prova – in maniera sempre più stringente – di essere effettivamente titolare del credito.
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Trattiamo oggi di una particolare azione che permette al creditore – al verificarsi di determinate condizioni – di agire nei confronti del proprio debitore e del terzo a cui quest’ultimo abbia alienato (magari ad un prezzo vile) ovvero abbia donato o costituito in trust o ancora - nel caso di coniugi - abbia costituito in fondo patrimoniale il bene di sua proprietà, con lo scopo di sottrarlo alle ragioni creditizie.
Il creditore, in questo caso, può promuovere la c.d. “azione revocatoria”, disciplinata dall’art. 2901 e ss. c.c., con lo scopo di rendere inopponibile nei suoi confronti l’atto di disposizione compiuto dal debitore al fine di potersi, comunque, soddisfare sul bene da quest’ultimo fraudolentemente sottratto.
In particolare l’art. 2901 c.c. prevede che “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l'atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l'atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.”
In caso di esito vittorioso, l’azione non travolge l’atto impugnato, con conseguente effetto restitutorio o recuperatorio del bene al patrimonio del debitore, ma ha l’effetto tipico di determinare l’inefficacia dell’atto stesso nei confronti del creditore-attore, al fine di consentirgli di aggredire il bene con l’azione esecutiva.
Chiarito dunque lo scopo della azione revocatoria, vediamo come detta azione si innesta nella fattispecie “cessione del credito”.
La giurisprudenza in passato aveva distinto il diritto di credito – in capo al cessionario – dal diritto di ottenere una dichiarazione di inefficacia dell’atto di disposizione con il quale il debitore si sia spogliato del bene che – a dire di tali sentenze – sarebbe restato in capo al cedente, escludendo – dunque – per il cessionario la possibilità di avvantaggiarsi della sentenza ottenuta dal cedente per poter aggredire il bene oggetto di revocatoria (cfr. Cass., sez. III, Ord. 12.12.2017. n. 29637; Cass., sez. I, 04.12.2014, n. 25660).
Tali pronunce sostenevano – appunto – che il diritto controverso nell’azione revocatoria non fosse il diritto di credito ma il diritto alla declaratoria di inefficacia dell’atto pregiudizievole.
Sulla scorta di tali principi, ad esempio il Tribunale di Mantova con sentenza n. 889/2019 del 23/12/2019 – pur avendo accolto le domande della Banca cedente volte alla dichiarazione di inefficacia degli atti dispositivi – aveva evidenziato che “… tuttavia, secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di azione revocatoria, qualora la parte attrice ceda il proprio credito nel corso del giudizio, è inammissibile l’intervento in causa del cessionario, atteso che il diritto controverso non è il diritto di credito, ma il diritto alla declaratoria di inefficacia dell’atto che si assume pregiudizievole, sicché il cessionario non subentra automaticamente nel diritto controverso, non trovando applicazione l’art. 111 c.p.c.”, dichiarando così l’inammissibilità dell’intervento ex art. 111 c.p.c. del cessionario.
Ciò portava al paradossale risultato che il creditore cedente potesse aggredire il bene oggetto della dichiarazione di inefficacia ma non ne avesse più l’interesse, non essendo più titolare del credito; mentre il cessionario non potesse usufruire del risultato positivo ottenuto con la dichiarazione di inefficacia dell’atto e, dunque, non potesse agire esecutivamente per recuperare il proprio credito, pur essendone l’effettivo titolare; con la conseguenza di consentire, da un lato, al debitore di sfuggire ai propri oneri e – dall’altro – disincentivando di fatto, in ultima analisi, lo stesso acquisto delle situazioni giuridiche litigiose, col risultato di arrecare pregiudizio all’economia generale.
A tale evidente paradosso ha posto rimedio – dapprima la Corte di Cassazione con sentenza n. 20315 del 23.06.2022 con cui si è affermato che “la sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria giova ope legis al cessionario del creditore”.
E ciò in quanto l’art. 2902 c.c. prevede che il creditore, per effetto della dichiarata inefficacia dell’atto dispositivo, possa promuovere l’azione esecutiva nei confronti dell’avente causa del debitore. Se, dunque, il credito tutelato con l’azione revocatoria si trasferisce per effetto di cessione anche il cessionario acquista ipso iure il diritto di “promuovere l’azione esecutiva” che non sarebbe neppure concepibile scisso dal credito ceduto.
A questi principi si è ispirata la recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 1294/2023 secondo cui – non solo che chi agisce in revocatoria non fa valere un diritto diverso dal diritto di credito ma, anzi, propone un’azione a tutela del credito stesso con la conseguenza che condizione dell’azione revocatoria sotto il profilo della legittimazione non può che essere la titolarità del diritto di credito trasferitosi in capo al cessionario a seguito dell’operazione di cartolarizzazione – è ammissibile, anche in grado di appello, l’intervento ex art. 111 c.p.c. del cessionario in virtù dell’acquisita titolarità del credito a garanzia del quale l’azione revocatoria è stata promossa.
La sentenza appena citata evidenzia che il cessionario del credito ha un generale diritto di intervento nel processo, ex art. 111, comma 3, c.p.c., ogni qual volta la pronuncia giurisdizionale da emettersi nei confronti del cedente possa incidere sul suo diritto anche se non abbia preso parte al precedente o ai precedenti gradi del giudizio.
Ad avviso di chi scrive il recente orientamento appare più confacente allo scopo perseguito con l’azione revocatoria. Essa infatti è volta a ricostruire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore che si prospetti compromessa dall’atto di disposizione da questi posto in essere; trattasi, dunque, di una vera e propria azione a tutela del diritto di credito che, come tale, non può che essere riconosciuta al suo effettivo titolare.
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