In questa breve nota si vuole partire dal tema già in passato ampiamente trattato della concessione abusiva del credito per soffermarsi sul tema del sostegno finanziario alle imprese in crisi.
L’oggetto dell’approfondimento odierno è di grande attualità, collocandosi subito dopo l’entrata in vigore degli istituti del nuovo Codice della crisi e soprattutto dopo il periodo pandemico.
Difatti, la pandemia, è ormai un aspetto metabolizzato dagli operatori ma sullo sfondo del sistema creditizio si staglia un’insidia di medio-periodo. Per sopperire al fabbisogno di liquidità delle imprese, il legislatore dell’emergenza sanitaria ha facilitato l’accesso al credito bancario attraverso finanziamenti agevolati assistiti da garanzia pubblica.
Sul punto si segnala da ultimo la decisione del Tribunale di Asti (ord. 8 gennaio 2024 n.105) che ha dichiarato nullo un contratto di mutuo bancario supportato da garanzia pubblica sostenendo la consapevolezza da parte dell’istituto di credito, al momento dell’erogazione del prestito, dello stato di decozione in cui versava la società finanziata; in particolare, nella ordinanza si incentra l’attenzione sulle cause di nullità del contratto e, più in generale, sulla diligenza professionale richiesta al banchiere. È evidente che tale pronuncia apre molti scenari anche in ambito contenzioso e non solo in ambito concorsuale, sia di accertamento del passivo, sia di responsabilità per concorso in bancarotta.
La vicenda esaminata dal Tribunale sorge nell’ambito di un fallimento; tuttavia, ha effetti anche in ambito di ristrutturazione dei debiti o di contenzioso tra clienti e banche. Il caso specifico riguarda la verifica del credito in sede di stato passivo, da cui il curatore aveva escluso il credito vantato, concesso senza i presupposti e con aggravamento del dissesto. Il curatore aveva, altresì, proposto un’eccezione revocatoria osservando che l’erogazione costituiva un’operazione solutoria compiuta con mezzi anomali di pagamento entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Il mutuo assistito dalla garanzia MCC, infatti, era stato erogato su un conto corrente assistito da apertura di credito in conto fino a revoca, estinguendone il saldo negativo.
Secondo il Tribunale, il negativo andamento economico patrimoniale della società finanziata era facilmente desumibile a priori dall’analisi dei dati risultanti dai bilanci depositati al registro imprese, aventi natura pubblica e la corrispondenza, intercorsa tra le parti e riferita alla stipula del contratto di mutuo, dava evidenza dell’assenza di una anche minima attività istruttoria compiuta dall’istituto di credito prima di concedere il finanziamento. La banca, al contrario, avrebbe dovuto svolgere una reale e approfondita istruttoria circa la solvibilità della società, a maggior ragione considerate le risultanze dei bilanci e della centrale dei rischi. Tale condotta secondo il tribunale di Asti dimostrerebbe la consapevolezza delle reali condizioni di solvibilità della società e la piena l’accettazione del rischio di erogazione del finanziamento. Così, dunque, la sentenza evidenzia che l’unica ragionevole spiegazione di tale condotta era stata la possibilità di accedere alla garanzia statale, pur nella consapevolezza che la società non avrebbe mai potuto far fronte al rimborso del finanziamento. Tale causa, diversa da quella tipica del contratto di mutuo, conclude il Tribunale, si pone in contrasto con le disposizioni normative di natura primaria e secondaria che regolano le modalità con le quali va condotta l’attività bancaria (l’art. 5 TUB e la circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 della Banca d’Italia), nonché l’accesso alle garanzie prestate dal fondo.
La pronuncia in esame ha quindi dichiarato nullo il contratto di mutuo per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 c.c. ed inegotium contra legem ai sensi dell’art. 1418 c.c. Inoltre, ad avviso del Tribunale, l’operazione negoziale posta in essere dall’istituto di credito si pone in contrasto con il disposto di cui all’art. 217, comma 1, n. 4, L. fall.., in considerazione della sua idoneità a procrastinare la dichiarazione di fallimento dell’impresa e ad aggravarne il dissesto.
La pronuncia pone in ogni caso l’attenzione su un tema essenziale: la diligenza professionale richiesta nell’erogazione del credito bancario.
Peraltro, come ormai noto, Sace e MCC sono stati il fulcro della stagione pandemica e si è generata una parte di creditori messi potenzialmente in condizione di avere un trattamento prioritario. Resta da vedere se e come il mercato, nel suo complesso, assorbirà i contraccolpi diffusi dalle ormai numerose escussioni.
Tutto questo s’innesta sul tema della attitudine a negoziare delle banche che è l’elemento nevralgico del sistema, perché incide più del resto, in misura determinante, sull’epilogo fruttuoso delle negoziazioni, quale che sia la sede che le ospita.
Questo non solo perché in un’economia di società sottocapitalizzate che finanziano i cicli produttivi con l’appoggio esterno degli attori bancari, questi ultimi finiscono per detenere la parte maggioritaria del credito, ma perché ogni tentativo serio di superare la crisi risulta direttamente proporzionale alla disponibilità di quegli stessi attori a intervenire con nuove risorse.
Vi è, d’altro canto, un sostrato di regole parallele al Codice della crisi, maturate in ambiti difficilmente attingibili persino per il legislatore, con le quali gli operatori bancari sono costretti in principalità a misurarsi. Quelle regole sono condensate, per un verso, nella disciplina poco flessibile degli accantonamenti, per altro verso, in obblighi rigorosi in punto di vigilanza, riqualificazione dei crediti problematici, valutazione del merito creditizio.
Gli istituti bancari dovrebbero avere un occhio privilegiato sulle dinamiche reali dell’impresa in difficoltà, disponendo della prerogativa di monitorare meglio di altri l’attendibilità di una proposta o di un piano; è anche vero, però, che essi soggiacciono a standards severi e scivolosi ogni qualvolta si tratti di concedere nuovo credito o di reagire agli inadempimenti e agli insoluti.
Il nuovo impianto dell’ordinamento concorsuale individua i doveri dei creditori nella crisi d’impresa, con la disciplina concorsuale che assume un’inedita dimensione collaborativa. Buona fede e correttezza sono le coordinate del sistema, l’assenza di pregiudizio il criterio che adesso orienta in luogo del miglior soddisfacimento, le logiche di approccio agli strumenti di regolazione della crisi da parte dei titolari delle pretese.
Le clausole generali e il nuovo parametro di giudizio (e di raffronto) del trattamento non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria disincentivano gli atteggiamenti attendisti. Il panorama normativo chiama ora i creditori a raccolta, suggerisce loro di rendersi tempestivamente protagonisti degli itinerari di ristrutturazione. L’invito generico alla buona fede rivolto a tutti i creditori, si specifica proprio in rapporto agli interlocutori bancari, tramutandosi, fin dal percorso di composizione negoziata, nel loro obbligo di partecipare alle trattative in modo « attivo e informato ».
È una nuova modalità culturale e di approccio: i creditori finanziari sono chiamati a sopportare, non più soltanto il costo della transazione, ma anche il costo della cooperazione, con riferimento a ciascun tentativo non velleitario di contrasto dello squilibrio.
La mappa dei nuovi doveri include però un compendio di divieti. Da un lato, quello che inibisce dal sospendere o revocare gli affidamenti in virtù della mera ostensione della crisi. Dall’altro lato, quello che esclude possa tenersi artificiosamente (e abusivamente) in vita, con erogazioni o proroghe, l’impresa irreversibilmente decotta. Da un lato ulteriore, quello che stigmatizza l’uso della leva dei tassi e delle garanzie nell’ottica di soddisfarsi a discapito degli altri creditori, attraverso ingerenze nei processi decisionali dell’impresa in debito di ossigeno.
In questo scenario, la posizione del finanziatore è inevitabilmente scomoda, sospesa com’è fra il perimetro riassunto di doveri e divieti e una disciplina di vigilanza prudenziale passibile di condurre a scelte di segno opposto. Vi è un delicato equilibrio, sulla cui linea operatori e autori saranno impegnati a muoversi. Un equilibrio che oscilla fra un’esigenza e una preoccupazione. La prima propria del legislatore, portato a favorire ogni risanamento possibile e non velleitario dell’impresa in affanno. L’altra propria dell’attore bancario, incline alla cautela, preoccupato di sfuggire al contagio degli squilibri e all’incognita delle nuove responsabilità.
D’altra parte anche le prime pronunce giurisprudenziali di merito pubblicate dopo l’entrata in vigore del CCII in tema di richieste di autorizzazioni all’accesso a finanziamenti ex art.22 e ex art.99 sono tutte improntate alla massima cautela. Significativa è la pronuncia del Tribunale di Bologna 9 Gennaio 2023 secondo cui dopo un primo diniego alla autorizzazione di accesso ad un nuovo finanziamento bancario nulla impedisce la proposizione di una seconda istanza per ottenere l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili qualora sia mutata la situazione di fatto e ciò tanto più se la nuova richiesta sia finalizzata — come nel caso di specie — ad ottenere lo stesso finanziamento oggetto di una prima istanza rigettata, a fronte di un avanzamento delle trattative e una più chiara leggibilità del business plan con riscontri anche sul piano dell’attività di impresa medio tempore realizzata. Dunque in questo caso gli attori bancari e i Giudici si adeguano per un comportamento propositivo ma cauto e supportato da una verifica continua dei dati forniti e dal possibile recupero della continuità aziendale.
Occorre, comunque, attendere lo sviluppo della applicazione degli strumenti introdotti dal nuovo codice della crisi alla prova dell’assorbimento da parte dei creditori delle erogazioni regolate dalle leggi emesse in situazione emergenziale; certamente si apre un nuovo scenario valutativo del comportamento bancario nella valutazione del merito creditizio.
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